giovedì 3 maggio 2018

LA VITA QUOTIDIANA DEGLI SCRITTORI


La mia passione per la lettura è sempre andata di pari passo con la passione per il supporto che la rende possibile, l'oggetto libro, e per tutto il lungo processo che porta quel supporto dalla scrivania dello scrittore a quella del lettore. Ma come ci finisce un libro (qualunque genere di libro) sulla scrivania dello scrittore? In che modo cerca l'ispirazione (ammesso che l'ispirazione debba essere cercata)? Come riesce a conciliare la sua vita quotidiana (esteriore ed interiore) con la scrittura? Cosa comporta in termini di sforzo fisico e mentale, di organizzazione, di vita sociale, la stesura di un testo che può durare diversi anni? E ancora, esistono delle tecniche particolari che possono permettere a tutti di diventare scrittori o si tratta di un talento che madre natura concede solo a pochi fortunati? Si può davvero imparare a diventare scrittori? E quali sono i tic, le manie, le abitudini più o meno stravaganti che i grandi autori adottano o subiscono mentre scrivono un libro? Per cercare di rispondere a queste domande ho ripreso in mano un libro che tengo da qualche tempo sul comodino e che leggiucchiavo di tanto in tanto quando avevo voglia di togliermi una qualche curiosità sul dietro le quinte degli autori che più amo o che stavo frequentando in quel momento, senza però avere mai la voglia o il tempo di affrontarlo nel suo insieme, di farne cioè una sintesi, di estrapolarne delle lezioni o dei messaggi generali che potessero gettare una piccola luce sul "mestiere di scrivere". Si tratta di un lungo elenco di ritratti di artisti (non solo scrittori, ma anche pittori, musicisti, architetti, ballerini, filosofi...) osservati nella loro quotidianità, si intitola Rituali quotidiani, è uscito per Vallardi nel 2016 e quello che segue è il tentativo di realizzare tale sintesi.
 La prima caratteristica che sembra accomunare la maggior parte degli autori citati nel libro è la regolarità (ci sono varie eccezioni, ovviamente, di cui parlerò dopo). Sono infatti tanti gli scrittori che adottano degli orari fissi per scrivere, quasi si trattasse di un vero e proprio lavoro impiegatizio che inizia ad una certa ora, ha delle pause per i pasti o per gli svaghi a intervalli regolari e termina ogni giorno più o meno nello stesso momento. Questi autori sostengono che la scrittura deve essere tenuta continuamente in allenamento, e che un'applicazione quotidiana e costante è il solo viatico possibile per la creatività.
 Stephen King, che scrive rigorosamente tutte le mattine, inclusi i giorni di vacanza, a partire dalle otto/otto e mezza, e non smette prima di aver raggiunto l'obiettivo quotidiano di duemila parole, spiega così questo concetto: "Gli orari quotidiani esistono per abituarsi, per prepararsi a sognare proprio come ci si prepara ad andare a dormire, all'incirca alla stessa ora ogni sera, seguendo lo stesso rituale nel farlo. Nella scrittura, come nel sonno, impariamo a rimanere fisicamente immobili mentre incoraggiamo la mente a uscire dal monotono pensiero razionale delle nostre vite quotidiane. E come la mente e il corpo si abituano a una certa quantità di sonno ogni notte, è altrettanto possibile allenare la mente a dormire in stato di veglia in modo creativo e a elaborare i sogni, vividamente immaginati da svegli, trasformandoli in opere narrative di successo".
Un altro maniaco della puntualità era il poeta W.H. Auden, che come King preferiva scrivere di mattina. Lo stesso dicasi per Anthony Trollope, che si imponeva sessioni di lavoro mattutine sempre uguali: tre ore di lavoro con l'orologio da polso sul tavolo per scrivere 250 parole ogni quarto d'ora. Il fatto di essere stato per tanti anni impiegato presso lo stesso ufficio postale probabilmente aveva influito sulla regolarità dei suoi orari di lavoro. Ernest Hemingway, che data la sua vita sregolata e dedita all'alcol potremmo immaginare come uno scrittore irregolare, in realtà scriveva tutte le mattine, cominciando alle sei, e poteva continuare fino a mezzogiorno. Anche Henry Miller riconosceva l'importanza della regolarità e della disciplina nella scrittura, arrivando a capire negli anni che è sufficiente scrivere ogni giorno due/tre ore al mattino. Stessa conclusione cui giunse il poeta Philip Larkin, che le sue due ore le sfruttava però di sera, perchè "dopo cominci a girare in tondo e la cosa migliore è lasciare stare tutto per ventiquattr'ore, il tempo necessario al tuo subconscio per risolvere il blocco, e dopo sei di nuovo pronto a scrivere". Tra i sostenitori della regolarità possiamo citare anche: Haruki Murakami, che lavora per cinque/sei ore ogni mattina, e nel pomeriggio va a correre o a nuotare; Joyce Carol Oates, che scrive ogni giorno dalle otto/otto e mezza del mattino fino all'una, e poi dalle quattro del pomeriggio fin verso le sette; Immanuel Kant, la cui vita, non solo lavorativa, era programmata al minuto; Henry James, che scriveva ogni mattina fin verso l'ora di pranzo; Jean Paul Sartre, sei ore al giorno, tre al mattino e tre al pomeriggio; Somerset Maugham, tre ore ogni mattina; Graham Green, che arrivò ad affittare uno studio privato del quale solo sua moglie conosceva l'indirizzo, e vi si recava ogni giorno con orario d'ufficio; Sylvia Plath, che trovò un regime di scrittura regolare solo dopo la separazione dal marito, quando si alzava alle cinque di mattina e scriveva fino al risveglio dei figli; W.B.Yeats, che scriveva sempre almeno due ore al giorno e per il quale la disciplina quotidiana era fondamentale, sia perchè senza regolarità perdeva concentrazione, sia perchè era uno scrittore molto lento; Martin Amis, che scrive due ore tutti i giorni feriali dalle undici all'una, anche lui come Green in uno studio privato affittato allo scopo, a poco più di un chilometro dal suo appartamento londinese; la poetessa Maya Angelou, che si recava ogni giorno in una stanzetta d'albergo piuttosto spoglia per scrivere dalle sette di mattina alle due del pomeriggio (non le piaceva scrivere a casa perchè diceva che era troppo ordinata); Flannery O'Connor, che cominciava a scrivere la mattina dopo la funzione religiosa (era molto devota) e continuava fino a mezzogiorno; P.G.Wodehouse, che scriveva dalle nove di mattina fino all'ora di pranzo; George Sand, che scriveva a mano almeno venti pagine ogni notte, abitudine che aveva preso da adolescente quando doveva assistere la nonna malata; il grande Lev Tolstoj, che dichiarò : "Devo scrivere ogni giorno, senza eccezioni, non tanto per il successo del mio lavoro, quanto per rispettare i miei programmi"; stessa filosofia per John Updike: "Una routine seria e costante ti salva dalla rinuncia". E ancora: Honoré de Balzac scriveva tantissimo, dall'una di notte alle otto di mattina, poi, dopo un pisolino di un'ora e mezza, riprendeva fino alle quattro del pomeriggio; Victor Hugo, invece, scriveva solo di mattina fino alle undici; Charles Dickens lavorava sempre dalle nove alle due del pomeriggio, con una breve pausa per il pranzo; Mark Twain lavorava tutti i giorni tranne la domenica, dal mattino dopo colazione alle cinque del pomeriggio.
 Una percentuale importante di questi devoti della regolarità, come abbiamo visto, lavora di mattina, che sembra essere il momento della giornata più adatto alle fatiche della creazione letteraria, quello in cui evidentemente la mente è più riposata e libera da pensieri che possono distrarre. Ma anche se Auden era arrivato a dire che "solo gli Hitler del mondo lavorano di notte, i veri artisti non lo fanno", esiste in realtà un nutrito gruppo di scrittori che preferisce lavorare proprio di notte, tenendo fede a quell'immagine romantica dell'artista tormentato che ha bisogno del buio e del silenzio per poter scatenare i propri fantasmi interiori. E, a proposito di romanticismo, uno dei più famosi esponenti di questo gruppo fu proprio Friedrich Schiller, che lavorava quasi esclusivamente di notte, aiutandosi con caffé, vino, cioccolato e tabacco. Insieme a lui tanti altri scrittori ed intellettuali, come Thomas Wolfe, Gustave Flaubert, il drammaturgo Tom Stoppard, Samuel Johnson, Franz Kafka, Marcel Proust, Anne Rice (che scrisse Intervista col vampiro lavorando di notte e dormendo di giorno. Non poteva essere altrimenti, immagino), oltre ai già citati Sand e Balzac. Curioso poi il caso di Vladimir Nabokov, che cominciò a scrivere Lolita durante un viaggio in macchina attraverso gli Stati Uniti, lavorando di notte sui sedili posteriori dell'auto parcheggiata.
Ci sono infine i pochi che preferiscono il pomeriggio, momento che per i più è dedicato agli svaghi, al riposo o all'elaborazione del lavoro già svolto. Tra questi Gunter Grass (dalla tarda mattinata fino a sera), James Joyce, William Styron (dalle quattro del pomeriggio alle otto), L. Frank Baum (la mattina si dedicava al giardinaggio), Italo Calvino.
 Fin qui, quindi, abbiamo visto come lavorano i cultori della regolarità, della disciplina e della costanza, che credono fermamente che la scrittura non nasca dal nulla ma che al contrario abbia bisogno di un esercizio continuo e di una frequentazione assidua, tanto che potremmo arrivare a pensare che chiunque nutra una qualche velleità letteraria e abbia il tempo necessario da dedicarle potrebbe, con impegno e abnegazione, aspirare a diventare uno scrittore. Che la scrittura, insomma, come qualsiasi altra opera dell'uomo, sia prima di tutto frutto di lavoro e fatica. Ma allora che fine fanno l'ispirazione romantica, il talento, la predestinazione, il genio? Per questi autori sembrerebbe proprio che siano subordinati (o per lo meno supportati in modo decisivo) all'applicazione metodica, senza la quale il talento e la creatività non avrebbero la forza necessaria per manifestarsi. A questo proposito, John Updike ebbe modo di dichiarare : "Non ho mai creduto che fosse necessario attendere l'ispirazione, perchè le gioie del non scrivere sono così allettanti che se inizi a dargliela vinta, finisce che non ricominci mai più". Ma, come ho accennato in precedenza, non tutti gli artisti sono così metodici e abitudinari, non fosse altro perché non tutti riescono, per questioni legate al carattere o semplicemente alle incombenze della vita quotidiana, a imporsi una disciplina tanto ferrea. E ci sono anche coloro i quali pensano proprio che invece sia la famosa ispirazione a dettare le regole, che l'artista deve essere bravo a cogliere nei momenti più impensati, per cui non ha senso darsi orari nè regole particolari. Fra questi il grande Goethe, che riteneva inutile mettersi al lavoro senza ispirazione: "Meglio passare le giornate improduttive facendo altro o dormendo, che provando a scrivere qualcosa di cui poi non si è soddisfatti". Tra gli altri "indisciplinati" possiamo citare: William Faulkner, che scriveva preferibilmente di mattina, ma non aveva difficoltà ad adattarsi in qualsiasi momento della giornata, con sessioni lavorative comunque sempre molto intense; il già citato Samuel Johnson, che, oltre che di mancanza di disciplina, soffriva anche di indolenza; Agatha Christie, che non aveva nemmeno un posto preferito dove mettersi a scrivere, perchè "mi servono solo un tavolo fisso e una macchina da scrivere. Mi comporto come un cane che sparisce con l'osso, che se ne va quatto, non lo vedi più per almeno mezz'ora e poi torna, timido, con il naso sporco di terra. Dopo che ho chiuso la porta e fatto in modo che nessuno possa disturbarmi, allora vado avanti a tutta birra, totalmente assorta in ciò che faccio"; Umberto Eco, che diceva di riuscire a lavorare in tutti i ritagli di tempo tra i diversi impegni quotidiani: "Riesco a lavorare anche nel bagno di un treno. Quando nuoto, produco un sacco di cose, soprattutto se nuoto in mare. Molto meno nella vasca da bagno, ma comunque anche lì"; James Dickey, l'autore di Dove porta il fiume, che scriveva in ufficio durante l'orario di lavoro, cercando di non farsi scoprire dai principali; David Foster Wallace, che dichiarò: "Non ho alcuna routine, perché cerco di crearne una solo quando la scrittura mi sembra futile e flagellante"; Georges Simenon, che fu uno dei romanzieri più prolifici del XX secolo, ma che, contrariamente a quello che si è propensi a pensare, non scriveva tutti i giorni, ma alternava intense sessioni di lavoro che duravano due o tre settimane e poi non scriveva per settimane o addirittura mesi.
 In definitiva mi sembra di poter concludere dicendo che per tutti questi scrittori, che hanno dedicato la vita al lavoro e che hanno lasciato in eredità al genere umano capolavori indiscutibili, la routine quotidiana, la regolarità, l'applicazione costante sono delle stampelle indispensabili dell'ispirazione, perchè creano il terreno ideale dove essa si può manifestare. Certo, uno scrittore privo di talento non riuscirà mai a scrivere la Recherche, neanche se si mettesse a lavorare ventiquattr'ore su ventiquattro sette giorni la settimana, ma risulta altresì evidente che uno scrittore ricco di talento farebbe fatica ad esprimerlo compiutamente senza un'adeguata, costante applicazione. Come disse Bernard Malamud : "Non esiste un metodo, si inventano troppe sciocchezze su questa cosa. Sei quel che sei, non sei Fitzgerald e nemmeno Thomas Wolfe. Se vuoi scrivere ti siedi e scrivi. Non c'è un luogo o un'ora particolare, ti adatti a te stesso, alla tua natura. Posto che uno sia disciplinato, il modo in cui lavora non ha importanza. Se non si è disciplinati, non c'è magico alleato che tenga. Il trucco è crearsi il tempo, non rubarlo, e produrre narrativa. Se le storie arrivano, le scrivi e sei sulla strada giusta. Alla fine ognuno trova la via migliore per sé. Il vero mistero da risolvere sei tu".

Quando si pensa agli scrittori, e agli artisti in generale, ci si immagina sempre delle persone eccentriche, con manie ed abitudini stravaganti, magari dedite all'alcol e/o alle droghe, comunque mai convenzionali. Ed in effetti stravaganze e dipendenze varie non mancano nella vita degli autori citati nel libro.
Patricia Highsmith, ad esempio, allevava chiocciole nel suo giardino, e la sua passione per i gasteropodi era tale che una volta si presentò ad un cocktail party munita di una borsetta contenente un cespo di lattuga e un centinaio di lumache, affermando che erano i suoi accompagnatori per la serata.
Quando abitava nella sua casa di campagna, Gertrude Stein era solita scrivere solo mezz'ora al giorno, di mattina, all'aperto, e dovevano sempre esserci delle mucche da poter osservare. In caso contrario la sua compagna Alice Toklas doveva provvedere a prenderne a bastonate una per farla entrare nel campo visivo della scrittrice.
Flannery O'Connor allevava volatili e leggeva Tommaso d'Aquino prima di addormentarsi. "Leggo molta teologia perchè rende più audace la mia scrittura", diceva.
P.G. Wodehouse dopo la passeggiata postprandiale doveva assolutamente rientrare in tempo per vedere la soap opera Ai confini della notte, di cui non perdeva una puntata.
Thomas Wolfe trovava l'ispirazione creativa toccandosi i genitali, perchè questo atto, pur privo di una vera e propria connotazione sessuale, favoriva una "sensazione virile tanto forte e bella" da alimentare le sue energie creative.
Friedrich Schiller teneva un cassetto pieno di mele marce nella stanza in cui scriveva perchè diceva di aver bisogno dell'odore di decomposizione per riuscire a trovare l'impulso a scrivere.
Victor Hugo dopo la sessione mattutina di lavoro era solito uscire sulla terrazza e lavarsi in una tinozza riempita la sera prima, bagnandosi il corpo con acqua gelida e strofinandosi con un guanto di crine. I passanti potevano godersi lo spettacolo dalla strada.
Charles Dickens aveva bisogno di quiete assoluta per scrivere, tanto che il suo studio aveva due porte, per garantire l'isolamento da ogni rumore.
Gli svaghi preferiti di Nabokov erano "le partite di calcio in tv, un calice di vino ogni tanto o un triplice sorso di birra in lattina, prendere il sole sull'erba e ideare problemi di scacchi". E lunghissime passeggiate sui pendii alpini in estate, ad inseguire le sue amate farfalle.
Mentre scrive, Anne Rice è solita bere grandi quantità di Coca Cola light con ghiaccio.
William Gass, prima di mettersi a scrivere, per trovare l'ispirazione faceva un giro in città a fotografare "le parti rugginose, abbandonate, trascurate e oltraggiate della città. Soprattutto sporcizia e decadenza".
Jonathan Franzen, per concentrarsi nella stesura de Le correzioni, romanzo che terminò dopo quattro anni di duro lavoro e migliaia di pagine cestinate, si chiudeva nel suo studio con le persiane chiuse e le luci spente, sedeva di fronte al computer indossando tappi alle orecchie, paraorecchie e una mascherina sugli occhi.
Truman Capote non cominciava né finiva mai niente di venerdì.
Somerset Maugham scriveva su una scrivania posta di fronte ad una parete vuota, perché riteneva che fosse impossibile scrivere davanti ad un panorama.
Infine Georges Simenon adottava diversi rituali superstiziosi: nessuno doveva vederlo mentre scriveva; scriveva sempre vestito nello stesso modo; prendeva dei tranquillanti ogni volta che doveva cominciare un nuovo libro, perchè lo assaliva l'ansia; si pesava prima e dopo ogni libro, giungendo alla conclusione che ogni lavoro gli costava un litro e mezzo di sudore. Aveva un grande appetito sessuale, faceva sesso quotidianamente e spesso andava a letto con quattro donne diverse nello stesso giorno. Diceva di provare una curiosità infinita per l'altro sesso, e che tutte le sue avventure gli sono servite per creare tutti i personaggi femminili che popolano i suoi romanzi.
 Diversi sono poi gli scrittori che si trovavano meglio a lavorare a letto: Marcel Proust (sdraiato, con la testa sostenuta da due cuscini), Truman Capote, Edith Sitwell (a volte ci stava per tutto il pomeriggio, e poi diceva: "Sinceramente sono così stanca che non vedo l'ora di buttarmi sul letto"), John Milton (soprattutto negli ultimi anni, quando diventò progressivamente cieco), René Descartes (riteneva che l'ozio fosse essenziale per un buon lavoro intellettuale, e faceva di tutto per non affaticarsi troppo), Voltaire. Al contrario, Thomas Wolfe e Ernest Hemingway erano soliti scrivere in piedi.

 Infine, le dipendenze. Le più comuni sono fumo e alcol, che affliggevano (anche se loro avrebbero detto aiutavano) tanti degli autori presenti nel libro, ma c'è anche chi era aduso ad altre sostanze, come ansiolitici, sonniferi, barbiturici, anfetamine. E cioccolato e caffè.
Tra i fumatori incalliti un posto di primo piano lo merita sicuramente Sigmund Freud, che fumava almeno venti sigari al giorno e che disse una volta a suo nipote diciassettenne che aveva rifiutato una sigaretta: "Caro ragazzo, fumare è una delle gioie più grandi e meno costose della vita e se decidi già ora di non farlo, mi posso solo rammaricare per te".
Tra gli amanti dei sigari annoveriamo anche L. Frank Baum e Mark Twain, che ne fumava in continuazione, dalla mattina alla sera.
Karl Marx era così dipendente dal fumo che gli causò una malattia epatica, una fastidiosa dermatite e una forte infiammazione agli occhi.
Haruki Murakami, oggi famoso per la sua passione per la maratona, agli inizi della sua carriera di scrittore era molto sedentario e fumava tra le cinquanta e le sessanta sigarette al giorno.
Altri grandi tabagisti sono stati Thomas Wolfe, Patricia Highsmith, Thomas Mann (che si era dato un limite di dodici sigarette e due sigari al giorno), Tom Stoppard, Jean Paul Sartre (il fumo era soltanto una delle sue tante dipendenze), Truman Capote (che però non sopportava di vedere più di tre cicche nel posacenere), Friedrich Schiller, George Sand e John Updike.
 E poi c'è l'alcol, sicuramente il vizio più diffuso tra questi scrittori, spesso considerato più un aiuto che un problema. Francis Scott Fitzgerald, ad esempio, si era convinto a poco a poco che fosse fondamentale per il suo processo creativo. Preferiva il gin liscio, perchè agiva in fretta e non alterava troppo l'alito. Durante la stesura di Tenera è la notte continuò a bere in modo smodato, tanto che confessò poi al suo editore che il romanzo era stato suggestionato dall'alcol.
Patricia Highsmith era talmente dipendente dall'alcol da tenere una bottiglia di vodka sul comodino, da raggiungere appena sveglia, e ci segnava sopra il suo limite quotidiano.
James Joyce usciva spesso la sera a fare baldoria, e beveva parecchio.
William Styron diceva che l'alcol lo aiutava ad avere "particolari momenti visionari" durante le sessioni di lavoro.
Mark Twain, invece, usava l'alcol per riuscire ad addormentarsi. Prima provò con lo champagne, poi con la birra e infine con lo scotch caldo, finchè una notte andò a letto prima del solito, alle dieci in punto, e si addormentò così, in modo naturale.
Altri alcolisti incalliti sono stati Ernest Hemingway, Kingsley Amis e Jean Paul Sartre (vino).
 Tra le dipendenze che non ti aspetti c'è invece il caffè, sfruttato per la sua carica stimolante e per prolungare le sedute di lavoro. Particolarmente dedito a questa bevanda, fino a diventarne completamente dipendente, fu Honoré de Balzac, che si stima bevesse cinquanta tazzine di caffè al giorno. Forti consumatori di caffè furono anche Thomas Wolfe (insieme al tè), Soren Kierkegaard e Truman Capote.
 Friedrich Schiller e George Sand, invece, si sostentavano durante le intense ore di lavoro notturno consumando grandi quantità di cioccolato.
 Ci sono infine le dipendenze più pesanti, patologiche, come quella dalle anfetamine di cui soffriva W.H. Auden (le ha assunte regolarmente per vent'anni fino all'assuefazione) o quella dalla benzedrina di Ayn Rand e Graham Green. Jean Paul Sartre, poi, per non farsi mancare nulla, assumeva barbiturici e anfetamine in dosi cinque volte superiori a quelle prescrittegli.

 Impegno costante e quotidiano, concentrazione cercata ossessivamente nei modi più improbabili, sostanze stimolanti consumate come caramelle, fumo, alcol, insonnia e disturbi vari causati dal troppo lavorìo mentale... Ma è davvero così impegnativo e stressante scrivere a livello professionale? Beh, forse lavorare in miniera (per dirne una) è più faticoso, ma le risposte che ci danno alcuni degli autori citati ci fanno capire che di sicuro non si tratta soltanto di quella piacevole attività creativa che consiste nel sedersi ad una scrivania e lasciar scorrere la fantasia su un foglio, e che più di tanti lavori tradizionali comporta una dose di fatica, sudore e dedizione che non tutti riescono a sopportare. 
"Diciamoci la verità, scrivere è un inferno", diceva William Styron.
E Philip Roth, rincarando la dose: "Scrivere non è un lavoro duro, è un incubo".
Gustave Flaubert: "Amo il mio lavoro di un amore convulso e perverso, come un asceta ama il ciclicio che gli graffia il ventre".
 E poi c'è la frustrazione dovuta all'insoddisfazione per il lavoro già svolto, la ricerca snervante della perfezione, che assieme all'angoscia di fronte alla pagina bianca sono compagne fedeli di tutti gli scrittori. Italo Calvino, ad esempio, faceva una gran fatica a iniziare la sessione di lavoro: doveva imporsi di sedersi alla scrivania e solo dopo un po' riusciva a prendere il via, ma sempre in modo lento e facendo continue correzioni e revisioni.
Ernest Hemingway aveva ovviato a questa stessa difficoltà interrompendo il lavoro in un punto da cui sapeva già come sarebbe continuato, proprio per facilitare la scrittura del giorno successivo.
Lo stesso dicasi per Kingsley Amis, che aveva un rapporto con la scrittura molto tormentato, gli metteva ansia mettersi al lavoro, per cui anche lui terminava sempre una sessione quando aveva ancora qualcosa da dire, per semplificarsi il momento in cui avrebbe ricominciato.
Jonathan Franzen, come abbiamo visto, ci mise quattro anni a scrivere Le correzioni, perchè capitava spesso che il venerdì, quando riprendeva in mano il lavoro della settimana, si accorgesse che non andava bene, per cui cercava di correggere e a volte buttava tutto.
A Charles Dickens capitava spesso di avere giornate improduttive, nelle quali si sedeva comunque alla scrivania, scarabocchiando qualcosa e guardando fuori dalla finestra.

Ci vuole una grande forza di volontà per diventare bravi scrittori, una determinazione ferrea a superare gli ostacoli e a raggiungere l'obiettivo, una lotta quotidiana che comporta sacrifici di cui noi semplici lettori, di fronte al libro compiuto, raramente ci rendiamo conto. Ed è solo grazie agli sforzi di questi maestri, ai loro sogni e ai loro caparbi tentativi di catturare visioni spesso tormentate e sfuggenti che possiamo ogni giorno allargare gli orizzonti delle nostre vite entrando in contatto con altri mondi, altri modi di pensare, altre consapevolezze. Ma sono sforzi e sacrifici di cui nessuno di loro avrebbe mai potuto fare a meno. Perchè scrivere (anzi Scrivere, nel senso più nobile del termine) è una missione, una vocazione che solo pochi fortunati (o sfortunati) possiedono, che lega a sè tutta la vita e fa dire, con Patricia Highsmith:

 "Non c'è vita reale se non nel lavoro, cioè nell'immaginazione".  

Tutte le informazioni contenute in questo articolo sono state prese (e da me liberamente rielaborate) da: Rituali quotidiani, Mason Currey, Vallardi Editore, 2016


Nessun commento:

Posta un commento