martedì 5 marzo 2019

IL NOME DELLA ROSA: LIBRO E SERIE TV (E FILM) A CONFRONTO



Il nome della rosa è il mio libro della vita, quello che mi ha iniziato ai piaceri della lettura e che mi ha ispirato quell'amore per i libri che tanto ha influenzato le mie scelte e ha contribuito, letteralmente, a farmi diventare quello che sono. L'ho letto e riletto e l'ho ascoltato leggere, e ogni tanto lo riprendo in mano, quando sento il bisogno di riconciliarmi con la  buona scrittura, o semplicemente quando voglio evadere dai miei problemi. Ho visto e rivisto anche il film di Annaud, che finora era stata l'unica trasposizione del romanzo, con esiti peraltro ammirevoli e un Sean Connery perfetto nell'interpretazione di Guglielmo da Baskerville. Adesso, a distanza di 33 anni, finalmente qualcun altro ha preso il coraggio a due mani e ha deciso di cimentarsi nell'impresa, adottando il format che negli ultimi tempi sembra aver soppiantato, vuoi per motivi commerciali, vuoi per rinnovate esigenze artistiche, quello del film quando si tratti di rendere in immagini un testo letterario, e cioè la serie televisiva. Ho aspettato quindi con ansia la messa in onda della prima puntata, curioso e pieno di aspettative, felice di potermi immergere di nuovo nelle atmosfere evocate magistralmente da Umberto Eco, ma anche un po' preoccupato, perché Il nome della rosa non è certamente un libro facile da trasporre, con tutti quei rimandi alla teologia e alla filosofia dell'epoca, tutte quelle disquisizioni dotte e quel lessico impreziosito dalla patina del tempo. In questi casi bisogna fare delle scelte, qualcosa, per forza di cose, andrà perso (Annaud, ad esempio, si era concentrato sul giallo, mettendo da parte le questioni teoretiche), ma quello che resta, quello che viene scelto di rappresentare, deve almeno essere in grado di "ricreare l'atmosfera", di riportare chi sta guardando all'anima profonda del libro. E' quello che, secondo me, è riuscito a fare il regista francese nel 1986, nonostante (o forse grazie a) i suoi monaci grotteschi e le inevitabili licenze poetiche, ed è quello che invece non ho riscontrato in questo primo episodio della serie. La scelta di rappresentare anche quelle scene che nel romanzo erano solo ricordate da Adso o raccontate da Guglielmo oppure ancora date per sottintese (come la vita di Remigio e Salvatore al fianco di Dolcino, il passato di Adso stesso o gli abboccamenti del papa con Bernardo Gui ad Avignone), condivisibile sulla carta, alla prova dei fatti non convince, perché il fascino di questo romanzo (quella sensazione impalpabile e indescrivibile che te lo fa amare) sta anche nell'ambientazione "chiusa" dell'abbazia, nella quale si entra il primo giorno e dalla quale si esce solo nelle ultime pagine, e tutto quello che succede al di fuori, o che è successo prima, arriva solo come un'eco lontana che poco o niente condiziona la vita dei monaci intenti al proprio ora et labora, preoccupati solo di non venir circuiti dal demonio e di sfuggire ai mille tentacoli dell'eresia che tanti confratelli (anche in odore di santità) ha indotto all'errore (tanto per fare un esempio, l'entrata in scena fin da subito di Bernardo Gui toglie quell'alone di mistero e di timore reverenziale che nel romanzo, dove compare solo con l'arrivo della delegazione pontificia, contribuiva sottilmente ad avvolgerlo nel suo fascino malefico). E dentro l'abbazia le cose non migliorano. Troppa luce, secondo me. Troppi colori sgargianti, senso di misticismo e di raccoglimento praticamente assenti (ed era invece un aspetto che il film aveva reso molto bene), e le impressioni di stupore e meraviglia di Adso quando entra nel pianoro e quando vede l'Edificio completamente cancellate. Per non parlare della scena famosissima del portale, ridotta ad un paio di immagini distorte che a chi non ha letto il libro saranno sicuramente passate inosservate. E c'è molto da dire anche sulla libera interpretazione del libro da parte di regista e sceneggiatori, che se deve essere accettata in quanto, ovviamente, la serie tv non è il libro e gli autori sono liberi di metterci del proprio, quando ci si spinge troppo in là (come in questo caso) ci sentiamo autorizzati a dubitare della dicitura "Tratto dal romanzo...", parendoci più onesto un "Liberamente tratto dal romanzo...". Sono tante le licenze poetiche, troppe. Quella che stride più di tutte e che rovina (sì, la rovina proprio) l'immagine di Adso che ci aveva regalato il libro, quella cioè di un monacello intelligente e curioso, coraggioso e timorato di Dio, alle prese con le sue prime esperienze mondane, sempre pronto a cogliere i particolari e a stupirsi (positivamente o negativamente) di quello che gli succede attorno e di quello che gli insegna il suo maestro, è il suo passato di soldato agli ordini del padre, con quegli addominali scolpiti e le prostitute pronte ad offrirglisi. Nel libro Adso è appena uscito dal convento quando incontra Guglielmo, ed è proprio quel padre che nella fiction lui odia e definisce "un bastardo" che lo affida, su suggerimento di Marsilio Ficino, al frate francescano per fargli fare esperienza del mondo. Ma vale la pena riprendere l'intero passo:
Ecco com'era la situazione quando io - già novizio benedettino nel monastero di Melk - fui sottratto alla tranquillità del chiostro da mio padre, che si batteva al seguito di Ludovico, non ultimo tra i suoi baroni, e che ritenette saggio portarmi con sé perché conoscessi le meraviglie d'Italia e fossi presente quando l'imperatore fosse stato incoronato in Roma. Ma l'assedio di Pisa lo assorbì nelle cure militari. Io ne trassi vantaggio aggirandomi, un poco per ozio e un poco per desiderio di apprendere, per le città della Toscana, ma questa vita libera e senza regola non si addiceva, pensarono i miei genitori, a un adolescente votato alla vita contemplativa. E su suggerimento di Marsilio, che aveva preso a benvolermi, decisero di pormi accanto a un dotto francescano, frate Guglielmo da Baskerville, il quale stava per iniziare una missione che lo avrebbe portato a toccare città famose e abbazie antichissime. Divenni così suo scrivano e discepolo al tempo stesso, né ebbi a pentirmene, perché fui con lui testimone di vicende degne di essere consegnate, come ora sto facendo, alla memoria di coloro che verranno.
Capite bene che mostrarlo mentre affonda la spada in battaglia e assiste agli amplessi paterni non è una interpretazione del romanzo, ma una distorsione vera e propria, che non va ad influire solo sull'immagine di Adso che ci porteremo dietro lungo tutto il racconto, ma anche sull'insieme delle vicende narrate che, partorite dalla sua memoria, sono interpretate dalla sua sensibilità. E questa non è l'unica "libera interpretazione" degli autori della serie, anche se resta la più importante (e la più inspiegabile). Ce ne sono tante altre, che sembrano avere lo scopo preciso di rendere più espliciti certi passi del romanzo, e nello stesso tempo più apprezzabili al target dell'ipotetico fruitore medio di serie televisive. C'è ad esempio la scena dell'abate che agghinda con pietre preziose la statua della Madonna, inventata di sana pianta e lontana anni luce dal passo corrispondente del libro, in cui si assiste ad una dotta discussione tra Abbone e Guglielmo circa l'opportunità o meno di lodare le cose celesti attraverso l'ostentazione di quelle terrene. Scena, quella della fiction, che si conclude peraltro con la richiesta disperata di perdono da parte dell'abate per un peccato che non si sa quale sia (visto che di esso nel libro non vi è traccia). C'è poi l'uso dei piccioni viaggiatori, che fa molto Game of thrones e che nel romanzo non vengono mai nominati. E ancora: il papa che sembra contare fin da subito sull'appoggio dell'abate (che invece nel libro è, almeno all'inizio, dalla parte dell'imperatore, e quindi di Guglielmo); l'ordine di perquisire le celle dato da Guglielmo, in puro stile tenente di polizia (mai dato nel libro: il panno sporco di sangue nella cella di Berengario viene trovato da un monaco dopo la sua scomparsa, quando l'abate "mosse la maggior parte dei monaci, ormai in allarme, a cercare dappertutto, senza risultato"); il cadavere di Adelmo che i monaci stanno trasportando in chiesa mentre Guglielmo e Adso entrano nel pianoro (nel libro il miniaturista è già stato sepolto all'arrivo dei due; il film di Annaud rende più elegantemente la scena mostrando Guglielmo che dalla finestra della sua cella vede la fossa riempita di terra fresca con le cornacchie appollaiate sopra); la ragazza con la quale in seguito Adso cadrà in tentazione che si mostra subito e segue il monaco nei suoi spostamenti, che ci induce a pensare di avere a che fare con la nascita di una vera e propria storia d'amore (questa è un'altra "licenza poetica" importante, che distorce completamente il senso dell'amplesso improvviso e inaspettato del "vero" Adso con la bella popolana nelle cucine dell'abbazia, e che a mio modesto parere non ha ragione d'essere, se non quella di inventarsi uno sviluppo arbitrario della trama che niente ha a che vedere col romanzo di Eco). Insomma, ce n'è abbastanza per frustrare le mie aspettative di ritrovare nella fiction le atmosfere del libro, che sono mistiche e sulfuree, intrise di devozione e di fanatismo, pervase dalla potenza costruttiva della parola scritta e da quella demolitrice delle sentenze dell'Inquisitore, atmosfere fatte di pace operosa e di inquietudine, di elevazione purissima (religiosa e filosofica) e di rovinose cadute nel sordido, di amore sacro e di deliquio dei sensi, di colori dell'animo più intensi di quelli delle cose, di speranza e di condanna. E che sono, soprattutto, tanto suggerite e poco mostrate, e per questo ancora più pregnanti, perché nascono da dentro di noi e non ci vengono imposte.

Questa fiction è ben fatta, con attori bravi e una discreta ambientazione, avvincente anche, magari commovente. Ma se è il vero Nome della rosa quello che state cercando, date retta a me: spegnete la tv e accomodatevi su una poltrona comoda, accendete una candela e aprite il Libro. Quello non delude mai, anche se, come me, lo avete già letto una dozzina di volte.     
             

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